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Amos Gitai.La meravigliosa arte della vita (Il Manifesto)

11 febbraio 2012


Storia di una ragazza appassionata che ama la propria indipendenza e attraversa il secolo scorso tra l’Europa e la Palestina
Nelle pagine che introducono alla raccolta di lettere della madre Efratia, Amos Gitai riporta una serie di conversazioni tra lei e lui, registrate nel 1991 e trascritte in seguito. Eccoci subito in una storia familiare piena di rimandi, il cui percorso si snoda dall’Europa alla Terra promessa, e viceversa, comprendendo la prima e la seconda guerra mondiale, il nazismo, l’Olocausto. E anche la scommessa dei kibbutz, i pionieri in Palestina, la sfida delle giovani generazioni dei «saba», come si chiamano allora gli ebrei nati in Israele, quale era Efratia.
È una storia di viaggi, per terra e per mare, avventurosi e pieni di incognite, di bauli dispersi tra la Russia e l’Italia sulle navi di migranti. Di una terra «senza ombra e senza acqua», di persone che intrecciano i loro destini a una geografia in continua mutazione. Mosca, Odessa, le persecuzioni contro gli ebrei nel 1915, la rivoluzione russa. Vienna, Trieste, Jaffa,Tel Aviv. La casa con le finestre sul mare e la semplicità di una famiglia in cui si divoravano libri, il kibbutz e la rivolta delle giovani generazioni, quella di Efratia, per seguire le proprie idee. Poi di nuovo l’Europa, Vienna la Rossa, Freud, Alfred Adler, Charlotte Biedler.
Scorrono le parole, e gli anni, arriva Munio Weinraub Gitai, il padre di Amos, giovane architetto, in Europa il nazismo lo ha cacciato, lui era nato in Polonia. Efratia e Munio si sposano, lavorano insieme alla costruzione di una nuova realtà; nasce il primo bambino, Dan, che muore a soli due anni.
Siamo nel 1937, Munio torna nell’Europa che è alle soglie della guerra e dei futuri stermini, la Palestina è la salvezza, dopo ci sarà Israele… «Ho dedicato moltissimo tempo alle persone, nella mia vita. Forse troppo. Ma in quella galleria delle meraviglie che è la mia vita, ho conosciuto persone eccezionali. Eravamo un gruppo variegato che si dedicò a costruire il paese, Eravamo donne molto attive. E poi vedove. È un’arte quella di essere vedove. In fondo vivere è una grande arte».
E questa arte della vita riempie il carteggio di Efratia, ragazza bella, appassionata, mai disposta a rinunciare alla sua indipendenza. A vent’anni, nel 29 (era nata nel 1909) parte alla scoperta del mondo, di questa vita che respira col pensiero del suo tempo, le battaglie della politica, il sogno di un mondo diverso, tutto da inventare.
Efratia Gitai. Storia di una famiglia. ebrea (Bompiani Overlook, p. 260, in libreria la prossima settimana), annoda i fili di un secolo, il Novecento, in quelle lettere che la madre del regista di Kippur, non ha mai smesso di scrivere e di ricevere per quasi settant’anni, fino al 1994.
Grandi eventi delal Storia uniti a riflessioni privatissime, alle parole d’amore per il marito, per i figli, i genitori, i fratelli, gli amici. Alle dispute con il padre, alla rivendicazione di un’autonomia del pensiero e delle scelte. Alle confidenze con le sorelle, al dolore e alle scoperte. Un viaggio ininterrotto tra Palestina e Europa, tra oriente e occidente, e una memoria che ha ispirato profondamente il cinema di Gitai. Nelle parole della madre, come nella vita del padre – che è al centro del suo prossimo film Lullaby for my father – la dimensione dell’esperienza personale traccia una cartografia del secolo passato. Una storia viva, emoziante, che riflette il nostro passato e ci permette di interrogare i conflitti del presente.
Ne parliamo al telefono con Gitai.

La storia della tua famiglia, tuo padre architetto del Bauhaus, europeo, costretto alla fuga in Palestina dal nazismo, e tua madre nata in Palestina che scopre l’Europa da ragazza, al di là della dimensione «privata», ripercorre l’intera parabola del Novecento.
Il film che sto finendo su mio padre (Lullaby for my father) racconta in effetti il secolo scorso attraverso il suo vissuto. In Europa e in Israele. Ma credo che quando si affronta un contesto in cui si sovrappongono molti sguardi contraddittori, il microcosmo è il punto di partenza migliore. Se guardo alla vita di Munio, vi trovo molti spunti per capire il senso profondo dell’architettura: nella sua semplicità c’è il lavoro di una generazione che voleva realizzare cose semplici, per i lavoratori, e non grandi musei che soddisfano solo l’egocentrismo. La sua visione dell’architettura costruisce anche uno spazio nel quale mettere a fuoco il contemporaneo. Efratia racconta invece il progetto di Israele prima che questo esistesse. Ed è una figura straordinaria, una donna indipendente che si muove in un mondo affascinante, non la tradizionale moglie e madre. A quei tempi, siamo negli anni Trenta, era inusuale. Anche il suo rapporto col padre, così come appare nelle lettere, è speciale. Tra loro c’è una relazione molto forte ma al tempo stesso lei non vuole sottomettersi, sceglie di stare da sola … Per me è stato un modello molto importante, mi ha insegnato che il pensiero deve rimanere libero, non può essere strumentalizzato dai politici, dagli stati. C’è uno scambio di lettere tra noi su questo, quando da Londra mi parla di Galileo che rifiutò di farsi schiacciare dalla chiesa

I tuoi genitori ci parlano anche di un’utopia. Entrambi vogliono realizzare una realtà di uguaglianza, giustizia, rispetto, libertà, e forse lo stato di Israele dopo la guerra non rispecchia il loro pensiero. Tutto questo è diventato una parte fondante della tua poetica, dei tuoi film.
Mi è sempre piaciuto scoprire quanto e in che modo la dimensione utopica condizioni la sfera intima. Il modo di vivere, e di porsi nelle cose, di Efratia e di Munio è stato per me un po’ una bussola. Soprattutto perché sono sempre state persone di grande semplicità e modestia, nonostante entrambi frequentassero i grandi pensatori del secolo, Munio aveva lavorato con Mies van der Rohe, Efratia studiava la psicanalisi a Vienna, conosceva Freud… Il loro pensiero segue una direzione molto chiara ma non è mai rigido, per entrambi la vita coincideva con la letteratura, la politica, come ne discutono mi piace moltissimo, senza separatezza … Film come Kadosh o come Promise Land sono ispirati dalle conversazioni con mia madre, dal suo sentimento che le donne nella nostra società non avevano ancora il giusto spazio.

Anche la relazione tra Israele, e l’Europa è un aspetto centrale nella loro esperienza. E se penso al tuo cinema non posso che ritrovarvi la stessa tensione. Non credo che sia giusto definirti un regista «israeliano» , legato unicamente alla dimensione del conflitto mediorientale.

Non sono obbligato a fare film, è una scelta che unisce l’aspetto estetico e la voglia di raccontare delle storie. Però le istituzioni, e anche una certa visione critica, devono classificare il cinema mettendolo sotto questa o quella bandiera. Naturalmente non vale per i registi europei, accade con chi come me arriva dal medioriente. È un retaggio del colonialismo che mette l’Europa al centro. Il resto è solo un’illustrazione della realtà, perciò noi che facciamo film in Israele non facciamo cinema. Mio padre era nato in Europa, non credo che fosse stato felice di andarsene infatti quando perdono il loro primo figlio, nonostante il pericolo del nazismo, Munio torna in Europa. Sarà Efratia a salvarlo da quella trappola. Ma la sua rottura con l’Europa era stata tragica e brutale, e questo lo aveva spinto a quel viaggio allucinante. Anche per me, che sono nato in Israele la dimensione europea è centrale. Nonostante nel mio bagaglio culturale sia importante il rapporto con il paese dove sono nato, non posso però rinunciare a questo dualismo.

In che modo hai raccolto e organizzato le lettere (la selezione e la cura editoriale sono di Rivka Gitai, ndr)?
Mia madre quando spediva una lettera chiedeva al destinatario di rimandargliela indietro. Così quasi nessuna è andata perduta. Nella sua corrispondenza vedo una specie di diario aperto del secolo scorso, in cui registra cambiamenti, tristezze, la perdita della sua utopia. Penso che ne fosse consapevole in qualche modo. É stato un lavoro lungo, mia madre è morta ormai sette anni fa,e per me le sue lettere costituiscono una memoria che mostra anche i conflitti con grande vitalità.

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  1. 11 febbraio 2012 16:39

    Cara Giusy, molto belli sia l’articolo che l’intervista ad Amos Gitai.
    Una realtà sospesa tra due mondi -oriente ed occidente-, la storia di una famiglia che riflette la Grande Storia sullo sfondo.
    A questo proposito Ti segnalo un’opera prima, davvero notevole. Si tratta di “Generazioni 1881-1907”, ed. WHP, un romanzo uscito nei mesi scorsi. L’Autore si chiama Gabriele Rubini ed è un appassionato (non vuole, giustamente, essere definito “esperto”, termine che nemmeno a me piace) di Storia, anzitutto del Medio Oriente.
    Ho appena commentato il libro sul mio sito web.
    Un saluto cordiale

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