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Il libro dell’ignoto, Jonathon Keats. Recensione e intervista. La parola al traduttore: Silvia Pareschi.

13 giugno 2011

I Giusti

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

(Jorge Luis Borges)

I Lamed Vav *

di Giusi Meister

E’ un fatto che gli autori americani di cultura ebraica siano riusciti, e riescano anche oggi meglio di altri, ad intervenire su una tradizione narrativa fortemente caratterizzata innovandola profondamente. Tuttavia, come per un buon profumo, evaporato l’alcool l’essenza profonda persiste, creando, con l’odore naturale della pelle a cui si unisce, combinazioni ogni volta nuove e originali.
Jonathon Keats, che si inserisce perfettamente nel solco di questa tradizione letteraria, è di San Francisco, e del suo libro sui Giusti dice ”If I’m blaspheming, it means I’m doing my job as a writer, and also, I believe, being true to the deepest value in Judaism, which is the value of questioning”* (intervista disponibile interamente al link http://www.salon.com/books/int/2009/03/09/jonathon_keats/).
Nell’ebraismo, infatti, prima di fornire nozioni, si insegna ad assumere un atteggiamento dialettico, facendo domande, poiché sono queste ultime la vera chiave di volta per la conoscenza, per la saggezza. Il malvagio è colui che afferma stentoreamente, il saggio poiché desidera conoscere, chiede, predisponendosi così al confronto.
Questo atteggiamento di costruzione attraverso il dialogo, peraltro, non appartiene affatto al solo credente, ma si estende anche a chi, seppur laico, in questa cultura è cresciuto e si è intellettualmente formato. Ne deriva che una costruzione manichea del mondo è esclusa a priori, emergendo piuttosto l’esigenza di accostarsi alla segreta meccanica delle cose.
Il libro dell’ignoto”, pertanto, pur partendo dalla tradizione talmudica dei trentasei Giusti, si avvia autonomamente su sentieri narrativi popolati da una laicissima e intensa umanità.
Si sente che narrativamente Jonathon Keats si è ispirato agli apologhi di Scholem Aleichem, e che ancora prima di lui ha bevuto alla fonte ricca e sapida della tradizione Yiddish coi suoi personaggi codificati: lo Shlemiel (l’idiota), lo Shnorrer (il mendicante accattone),il Luftmensch (il sognatore), tra gli altri.
Questo tuttavia, non vi deve trarre in inganno: Keats affonda le radici del suo sguardo in questo humus, ma lo rende acuto e avvertito grazie ad una sensibilità assolutamente moderna.
La sua è una sfida al pregiudizio, e i suoi Giusti, infatti, son ben lontani dai Santi che pratichiamo quotidianamente: sgualdrine, ladri, truffatori e falsi Messia. L’espediente narrativo iniziale del documento perduto e poi ritrovato, che permette da sempre un avvicinamento della pagina letteraria al mondo reale del lettore, consente in questo caso a temi metafisici come l’indagine intorno al bene e al male, di assumere così connotazioni emotive assolutamente contemporanee. E infatti, i trentasei Giusti questo fanno ancora oggi: reggere sulle loro inconsapevoli spalle, in precario equilibrio, il peso dello sgangherato asse del mondo.

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*”In lingua ebraica la Lamed, dodicesima lettera, corrispondente alla L dell’italiano, e ha valore numerico trenta e la Vav, la sesta lettera, corrispondente alla V, ha valore numerico sei. (…)La Ghematria, l’arte cabalistica di trasfomare i caratteri in numeri e di trasformarli o convertirli in contenuti e simboli nuovi, ci insegna ancora che il significato spirituale è posto all’interno della composizione di ciascuna lettera. Perciò, osservando la grafia della Lamed, si apprende la sua struttura particolare, composta di tre segmenti che formano vere e proprie lettere dell’alfabeto: in alto si eleva la decima e più piccola lettera, Yod, in basso è situata la sesta lettera Vav, e in mezzo, tra loro, è inserita l’undicesima Khaf. Sommando il valore numerico delle tre, otteniamo di nuovo la cifra trentasei, numero che nella Kabbalah è legato alla rivelazione del regno di Dio nel mondo. Inoltre la lettera Lamed, che rappresenta l’anima, manifesta la storia ebraica dalla rivelazione ad Abramo, attraverso l’esilio e la redenzione, fino all’arrivo del Messia. ” .
(Sarah Kaminski, I Giusti, Keshet, Gennaio 2005)

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Foto di Akim
Aginsky.

Conversazione con Jonathon Keats

La biblioteca d’Israele: Il tuo libro è assolutamente affascinante. Innanzitutto hai recuperato, rivivificandola, la meravigliosa tradizione Yiddish. A mio parere sei stato capace di operare una preziosa modernizzazione di questo mondo densamente simbolico, e mi è particolarmente piaciuto il modo in cui hai messo al centro dei tuoi racconti le figure femminili.
Iniziamo da ‘Yod l’inumana’. Un golem femmina è assolutamente rivoluzionario, secondo me, anche perché se gli uomini, nella storia, vengono resi meschini e abbrutiti dalle proprie passioni, Yod, invece, le attraversa sopravvivendogli, emergendone poi come un esempio di purezza e di ricerca di verità. Mi parli di questo personaggio? Del modo in cui si è composto nel tuo pensiero fino a trovare la propria strada nel libro?

Jonathon Keats: Yod è forse il personaggio meglio sviluppato e più chiaramente delineato del libro. E forse lo è proprio perché si tratta di un golem. Scrivere una storia, infatti, in un certo senso è come plasmare un golem. L’autore crea i personaggi e dà loro vita; all’inizio sono imperfetti, esseri umani approssimativi, ma ogni tanto c’è la possibilità che qualcuno di loro diventi davvero umano. Questa è sempre la speranza del loro creatore, e credo che in questa storia la mia speranza si sia avverata. A volte capita che personaggi apparentemente marginali assumano un ruolo centrale, come nel caso di Chaya, che mi ha sorpreso con la sua grande vitalità. Yod è nata in modo meno insolito, almeno per me, e cioè attraverso un accumulo di dettagli che alla fine hanno dato vita al personaggio.
Penso però che tu mi dia troppo credito definendola come rivoluzionaria. In realtà nel plasmare Yod non sono stato davvero fedele alla tradizione yiddish, perché, essendo cosmopolita come ormai siamo tutti, traggo ispirazione da tutto ciò che mi circonda. La storia di Yod, oltre che una storia di golem, è anche la mia personale interpretazione della storia di Pigmalione e Galatea: una specie di Pigmalione dello shtetl, insomma, anche se naturalmente la vicenda va a finire in modo diverso (e questo soprattutto perché la mia Galatea è un golem). Questo però dimostra quanto io ami trarre ispirazione da molte fonti diverse. Questo per me rappresenta il più grande fascino del folklore; quando lavoravo su queste storie, cercavo un modo per continuare la tradizione delle storie popolari. Mentre però quelle storie appartenevano a una tradizione orale plasmata nel corso del tempo, io ho cercato di inserirmi nel solco di quella tradizione pur rimanendo legato allo spirito del mio tempo, cioè lo spirito dell’autore solitario davanti alla pagina scritta, ma anche della tecnologia che ha facilitato il mescolarsi e il sovrapporsi di tradizioni diverse. La storia di Yod è nata dunque anche da questo tentativo di combinare fra loro varie tradizioni, come quelle appunto che hanno dato vita al personaggio del golem e a quello di Pigmalione. Anche se in genere non vengono accostate le une alle altre, in realtà tutte le storie popolari sono legate fra loro, anche se non appartengono alla stessa tradizione, perché appartengono a tutta l’umanità.
Insomma, il mio golem femmina può sembrare nuovo ma in realtà non lo è, o meglio, se in lei c’è qualcosa di nuovo è solo merito suo. Yod nasce all’inizio come una figura piuttosto rudimentale, e solo in seguito prende vita e diventa davvero se stessa: è il momento in cui non posso più prevedere cosa farà, e cioè il momento in cui sento che la storia vale la pena di essere raccontata.

La biblioteca d’Israele: ‘He la clown’. Mi ha colpito questo scambio di battute ”Ridi di lei?”, ”No, rido di noi”. Nel tuo libro c’è anche tanto del meraviglioso senso dell’umorismo del mondo ebraico dell’est Europa, e qui, in questo racconto, mescoli sapientemente il denso liquore scuro della malinconia con lo zucchero del riso. Oltretutto, visivamente, He è rappresentata in modo molto efficace, e questo non è affatto secondario visto che è una clown. A chi o a cosa ti sei ispirato per lei e come mai hai sentito la necessità di inserirla nella narrazione?

Jonathon Keats: Una figura della letteratura ebraica che ho sempre amato è quella dello sciocco, dello scemo, come gli “scemi di Chelm” di Isaac B. Singer. Quel che ammiro in queste figure è l’innocenza, l’ingenuità, una caratteristica che le espone al mondo in cui vivono in modo più diretto, permettendo loro di reagire ai casi della vita in modo più schietto e onesto di quanto farebbe gente più sofisticata di loro. Anch’io cerco di mantenere in me stesso questa ingenuità, che mi dà modo di avvicinare il mondo senza pregiudizi, e spero che le mie storie incoraggino i lettori a mantenerla o ritrovarla anche in se stessi. Per questo la figura dello sciocco – e il clown è uno sciocco di professione, per così dire – ha un potenziale narrativo enorme, nel mio lavoro come nelle opere del passato da cui ho tratto ispirazione. Per questo considero quella di Alef una delle storie più riuscite del libro, anche se l’elemento dell’ingenuità lo ritrovo anche in molte altre sotto forma di innocenza, come per esempio nel caso di Yod-Bet, l’angelo caduto che cerca di comportarsi come un essere umano.
La storia di He, invece, non mi ha mai soddisfatto fino in fondo, e ho cercato di capirne il motivo: forse il personaggio è un’incarnazione troppo letterale di queste qualità, o forse la storia in cui l’ho inserita ha troppo platealmente bisogno, per la sua risoluzione, della figura di uno sciocco o di un clown. He, insomma, coincide un po’ troppo con il mondo in cui vive, in un modo che lascia poco spazio all’imprevisto, e cioè alla vita. Le storie migliori, infatti, contengono molta più vita di quella che intendevo mettervi all’inizio, e mi hanno colto di sorpresa per come si sono sviluppate e per quello che mi hanno dimostrato sui loro protagonisti. Nella storia della clown, i personaggi a tratti mi affascinavano o divertivano, però mai fino in fondo. Uno degli aspetti che ho trovato più interessanti è proprio la sembianza fisica di He, quella sua fisicità di cui tu parli, perché in un certo senso mi ha illuminato il modo in cui l’esagerazione, l’umorismo fisico agiscono all’interno della narrazione.
Nelle mie storie do molta importanza alla correlazione fra gli elementi: fra i personaggi, fra le parti della narrazione e anche nell’uso della lingua, correlazioni, cioè, tra suono e significato. Si tratta di una relazione a doppio senso, in cui i due elementi devono completarsi a vicenda, e così nel caso di He gli attributi fisici del personaggio sono correlati al tema della storia, anche se forse, in questo caso, in modo un po’ troppo schematico. La mia scrittura gioca molto su come le caratteristiche dei personaggi si riflettono, in un gioco di specchi, nelle tematiche della storia, e forse mentre scrivevo He ero troppo consapevole di usare questo metodo. È stata una storia importante nell’evoluzione del libro, perché a quel punto ne avevo scritte ancora poche (Dalet il ladro, Bet la bugiarda e Ghimel il giocatore), e stavo ancora cercando di capire cosa volevo fare con questo libro. He mi ha aiutato a capirlo, e dopo di lei sono arrivate le storie per me più significative, quelle in cui procedevo con sicurezza ma anche con disinvoltura, con la fiducia che la storia avrebbe trovato la sua strada senza che io dovessi guidarla tenendola per mano.

La biblioteca d’Israele: Chaya. Lei non si può proprio dimenticare, né si può passare sotto silenzio il modo in cui hai riletto la figura tradizionale del dibbuk, umanizzandola teneramente. Poiché le figure femminili che compongono questo mosaico narrativo sono tutte estremamente caratterizzate e autonome le une dalle altre, per Chaya vorrei chiederti come mai hai scelto lei per raccontarci questa coppia estremamente moderna. Cosa ti ha affascinato di Chaya?

Jonathon Keats: Chaya è nata inizialmente come l’antitesi di Alef l’idiota. Mentre scrivevo queste storie, il mio intento era quello di mettere ogni personaggio in una circostanza che suscitasse una reazione il più possibile problematica e contraddittoria, e di conseguenza più interessante. Una vera e propria prova, insomma. Per lo stesso motivo, in genere scelgo personaggi con caratteri contrapposti, in modo che l’uno possa mettere in risalto le caratteristiche dell’altro. Così, per Alef l’idiota, ho pensato fin dall’inizio di mettergli accanto qualcuno che non solo fosse intelligente, ma che anche odiasse la stupidità e tutto quello che Alef rappresentava. In questo modo, Alef e sua moglie sarebbero stati una costante provocazione l’uno per l’altra, e questo avrebbe illuminato non solo le caratteristiche dei singoli personaggi, ma anche della loro relazione. Ma naturalmente gli opposti non sono mai davvero tali. È un’idea che si ritrova un po’ in tutto il libro, e anche se non mi sono seduto a scriverlo con l’intenzione consapevole di esprimerla, è talmente connaturata nel mio pensiero che si è manifestata da sola. Così Chaya è l’opposto di Alef ma è anche una parte di lui, e più i due si confrontano e più scoprono in sé questa somiglianza con l’altro. Questo metodo dialettico, che è al centro del pensiero ebraico talmudico, costituisce forse il fondamento inconscio della mia scrittura, ed è così profondamente radicato in me che finisco sempre per descrivere personaggi e situazioni d’ispirazione talmudica.
Chaya è senz’altro uno dei personaggi più forti del libro, e anche uno dei miei preferiti. All’inizio della storia è troppo forte per poter essere felice, e solo interagendo con Alef troverà la sua strada verso la vulnerabilità, come Alef troverà in lei la sua strada verso la saggezza. Alef e Chaya hanno bisogno l’uno dell’altra per diventare due persone complete, perché all’inizio della storia non lo sono, sembrano quasi due caricature. E questo non (spero) per una mia mancanza di attenzione nei loro riguardi, ma perché sono due persone immature, e la loro immaturità li rende una specie di parodia di quello che potrebbero essere.
Quanto al dybbuk, io credo che l’umanità e l’intelligenza si possano trovare in chiunque, quando le si cerca in modo aperto e senza pregiudizi. Per questo Alef, avvicinandosi al dybbuk con questo atteggiamento di totale apertura, riesce a riconoscere l’umanità del dybbuk. (Perché sono convinto che i dybbuk, se esistono, abbiano anch’essi un lato umano.) Alef consente a Chaya di scoprire l’umanità del dybbuk, e questa scoperta, a sua volta, fa emergere l’umanità nascosta sotto la durezza di Chaya. Intelligenza e umanità sono doni che tutti possiedono, ma che emergono solo nelle relazioni con gli altri (esseri umani o demoni che siano).
La storia di Alef e Chaya, anche se quando lo dico nessuno mi crede, è il mio personale tentativo di riscrivere la storia di Faust. Mi è sempre sembrato troppo facile considerare Mefistofele una semplice pedina, come fanno Marlowe e Goethe, e ho sempre provato simpatia per lui, come anche per Faust. Forse questa storia è stato un modo di esplorare la mia simpatia per il diavolo, e per farla scoprire anche agli altri.

La biblioteca d’Israele: Alla fine di questa conversazione parliamo anche di una figura maschile, Yod-Alef su tutti. In effetti, già il nome è un efficace condensato della sua storia. Per favore, parlamene tu liberamente. Dato il tema che tratti e il modo sorprendente in cui lo risolvi, infatti, mi interessa particolarmente il percorso che hai compiuto per trovare la soluzione narrativa più adatta. La semplificazione era pericolosamente dietro l’angolo, ma tu l’hai evitata sapientemente.

Jonathon Keats: L’imprevedibilità che tu noti nella storia dipende dal fatto che la storia, finché non ho finito di scriverla, era imprevedibile anche per me. Tutti i racconti del libro sono nati così, e quello di Yod-Alef è senz’altro un buon esempio del mio modo di lavorare sul personaggio e sulla narrazione. Il mio percorso comincia dai personaggi, da figure che mi affascinano e che desidero conoscere meglio. Per questo decido di metterle alla prova, di sottoporle alle sfide più ardue che riesco a immaginare, per poi rimanere fedele a quello che so di loro e osservare come interagiscono e affrontano la situazione. Voglio che la storia sia animata da un senso di sorpresa, e per questo cerco sempre di essere io il primo a sorprendermi davanti ai miei personaggi. Il senso di suspense che io provo è identico a quello che provano loro, perché io stesso non so fino all’ultimo come andrà a finire. Una volta conclusa l’avventura, mia e dei protagonisti della storia, torno indietro per raffinare e rielaborare la narrazione, in modo da renderla coerente (mai troppo coerente, però).

La parola al traduttore: Silvia Pareschi.

Avevo letto “The Book of the Unknown” prima ancora della sua pubblicazione negli Usa, e mi aveva subito colpito il linguaggio evocativo e in qualche modo fuori dal tempo di queste fiabe, archetipiche ma anche soffuse di un erotismo tutto moderno, che rivisitano una nota leggenda talmudica partendo dalla tradizione dei racconti dello shtetl per distaccarsene a tratti e assumere una dimensione universale.
Prima di cominciare la traduzione mi sono preparata rileggendo i racconti di Isaac B. Singer e Sholem Aleykhem, con particolare attenzione a come la lingua di questi scrittori era stata resa in italiano. Dopo avere in un certo senso trovato il sostegno di questi grandi autori del passato, ho avuto anche l’enorme fortuna di poter lavorare fianco a fianco con l’autore del libro: il sogno di ogni traduttore.
Nel corso della mia carriera mi è capitato spesso di corrispondere con l’autore che stavo traducendo, una corrispondenza che con alcuni si è sviluppata in una conoscenza personale e talvolta perfino in un’amicizia. Ma in questo caso si è trattato di una collaborazione molto più stretta, visto che ho potuto rivolgermi costantemente a Jonathon per qualsiasi dubbio o domanda sulla traduzione. E questo naturalmente ha rappresentato un aiuto inestimabile, oltre che un’esperienza nuova ed esaltante anche per una traduttrice piuttosto esperta come me.
Se da un lato non è stato difficile rendere il tono poetico e la musicalità della scrittura – l’italiano, sia pure con tutti i suoi difetti di rigidità rispetto a una lingua flessibile come l’inglese, ha ben pochi rivali quanto a musicalità – né le sfumature delicatamente ironiche che affiorano a tratti come piccoli accenti di modernità nell’atmosfera rarefatta delle fiabe, dall’altro ho dovuto arrovellarmi spesso sulla molteplicità di strati e livelli semantici che rappresentano la cifra stilistica dell’autore. Mi è capitato innumerevoli volte di chiedere a Jonathon: “questa parola, in questo punto, la intendi con questo significato o con quest’altro?” e sentirmi rispondere “con entrambi, e poi ce ne sarebbe anche un terzo, e forse anche un quarto…”. La soluzione è consistita spesso nel “traslare” la pluralità semantica, laddove non era possibile mantenerla per la parola o la frase in questione, in un altro punto del testo, che consentisse di mantenere il medesimo effetto nell’italiano, proprio per conservare intatta la molteplicità dei livelli di lettura e la capacità evocativa della lingua, che a mio parere sono due pregi notevoli di questo libro.

Il magazine di Giuntina ha ospitato questa intervista e recensione, di seguito il link:
http://www.giuntina.it/ElencoRecensioni/Il_libro_dell_ignoto_492/Recensione_e_intervista_526.html

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