Minimizzare la Shoah non è libera espressione e fa scattare l’aggravante

Il revisionismo della Shoah non rientra nella libera manifestazione del pensiero. Né chi minimizza lo sterminio di 6 milioni di persone, può invocare la buona fede, perché l’Olocausto è definitivamente accertato, anche grazie allo Stato che ha messo a disposizione gli strumenti culturali per far conoscere la tragedia del popolo ebraico.
La Corte di cassazione (sentenza 3808) conferma la condanna dell’imputato che, il 27 gennaio 2017, nella Giornata della Memoria, aveva affisso nelle vie di Milano volantini con l’immagine di Pinocchio con la scritta sul naso «Made in Israel».
Nei manifestini si ricordavano poi i libri, venduti nelle aree di servizio dell’autostrada «tra una caciotta e un culatello», che riportavano i racconti di esseri umani trasformati in bottoni e saponette. Una cultura ufficiale che – secondo gli scritti che la Cassazione definisce aberranti – avrebbe paura degli studi revisionisti, perché ha qualcosa da nascondere.
La Corte condanna. E sottolinea che non solo il negazionismo fa scattare l’aggravante, in caso di propaganda di idee fondate sull’odio razziale (articolo 604-bis del Codice penale), ma anche la minimizzazione.
La Cassazione va oltre, affermando l’esistenza di una continuità tra politica nazista e occultamento delle prove del genocidio. Obiettivo degli autori «che si definiscono storici» è convincere che la Shoah sia una grande impostura. Il fine vero non è «la ricerca della verità, ma piuttosto quello (inaccettabile) di riabilitare il regime nazionalsocialista».