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Lo scrittore Yehoshua: “Due o tre cose (non obbligatorie) sull’arte del romanzo”- Il Venerdì, 19 marzo 2010

5 aprile 2010

Ogni volta che inizia un nuovo romanzo, Abraham Yehoshua va a farsi un giro. Del palazzo. Gira e rigira. A 74 anni frigge ancora dal nervoso. Perché intanto, in casa, la moglie Ika sta esaminando, matita in pugno, le prime cinquanta pagine del manoscritto. Quel test rituale lui l’ha soprannominato l’amniocetesi. Sorride: «Per me ogni libro è un parto difficile. In corso d’opera devo rassicurarmi don una “diagnosi prenatale”. Che mi dica che tutto sta procedendo bene. Se stile, storia, personaggi funzionano». Per quanto concesso, il referto della consorte – che oltretutto fa la psicanalista- sarà spassionato: «se del suo giudizio mi fido è anche perché non sono mai stato il suo tipo. Come autore, intendo. Lei preferisce una scrittura meno ideologica, più descrittiva». Vanno d’accordo lo stesso. Non solo.

Quando te lo racconta, hai l’impressione che per Yehoshua il mestiere di scrivere sia ormai fuso tra le maglie della serenità domestica. Lavoro operaio. Casalingo. Mai condito da veniali consuetudini scaramantiche, però risolutamente laico: emancipato da totem e tabù di quella neoreligione profana chiamata creatività. Senza ascetismi né, a maggior ragione, scapigliature. L’età non c’entra. Abraham Yehoshua ha sempre lavorato così: «per ottenere la concentrazione c’è chi se ne scappa via, in solitudine. Io no, non mi sono mai isolato. Tranne agli inizi: non avendo un appartamento abbastanza grande, mi ritiravo in ufficio, all’università. poi ho sempre scritto in casa. E non mi barrico. Quand’erano ragazzi, lasciavo i miei figli andare e venire nel mio studio, se avevano qualcosa da chiedermi. Mentre lavoro a un libro resto permeabile alla vita. non ho paura che questa mi distragga. Faccio le cose di sempre. Guardo i notiziari in tv. Vado al supermarket. La sera vediamo gli amici. Forse diminuisco la lettura, però continuo a leggere – preferibilmente classici. Rispetto le abitudini e gli impegni familiari. Anzi, li metto al primo posto».
Con sua moglie, vivono tra Haifa e Tel Aviv. In settimana si alzano alle sette, lavorano fino a metà mattinata. Poi pausa caffè, e riprendono. Dopo pranzo, siesta («Non toccatemela» ringhia lui). Quindi di nuovo in attività fino alle sette. Dopo, liberi tutti: «in vita mia, mai scritta una sola riga di notte».
Magari Abraham Yehoshua non scenderà in dettagli tanto spiccioli sabato 27 marzo, quando, al Festival di Roma, terrà una prolusione su Come scrivo i miei libri, ma forse ricorderà che quello tra lui e il romanzo è stato un matrimonio tardivo: «Avevo quarant’anni. Ero già conosciuto, però come autore di racconti. Non osavo spiccare il salto. Ero inibito. Perché mi dicevo che il romanziere deve essere qualcuno. Nel senso che, a prescindere dall’età, deve aver maturato una visione del mondo». comunque ruppe gli indugi e ne venne fuori L’amante (1977), che resta il suo libro più letto e popolare. A yehoshua è capitato di tenere corsi di scrittura, ma ne diffida: «un pittore, un regista, un musicista possono andare all’accademia, al conservatorio. Ed è bene che lo facciano. Per lo scrittore è diverso. Ho il sospetto che sottoporlo a test continui rischi di corrompere quel che di meglio potrebbe esserci in lui». A dirlo è, come abbiamo visto, un autore disciplinatissimo. Ma la disciplina se l’è trovata e data da solo: «Non avanzo mai a tentoni: parto con tutta l’impalcatura della storia già in testa. Padroneggiarla mi trasmette una specie di calma. Però effimera: le prime pagine di un libro sono sempre un inferno».
Consigli ai debuttanti non si sente di darne. Da quel che dice, però, se ne può ricavare uno: «La forma- racconto è stata per me una buona palestra giovanile. Sulla “breve distanza” la lingua si fa le ossa. Può concedersi di essere più intensa, concentrata, poetica. Nel romanzo diviene giocoforza più dosata, strumentale. Deve traghettarti da uno snodo, da un capitolo all’altro».
Il suo apprendistato di scrittore non si è limitato ai racconti: prima è venuta la parola parlata. Quella degli sketch umoristici che al liceo si scriveva da solo e recitava davanti ai compagni. Poi l’esperienza nell’esercito: «A trentasei anni, da riservista, venni inserito in un’unità di militari- conferenzieri. Mi spedirono negli avamposti sul Canale di Suez per parlare di letteratura. Ma anche per spiegare alle giovani reclute che differenza c’è tra ebreo, sionista e israeliano». Avevano idee confusissime, in proposito».
Nell’epoca delle turbo carriere letterarie e degli esordienti pirotecnici che al secondo romanzo già sbracano come il trolley comprato dal cinese, in tempi così industriali e congestionati, le parole di Abraham Yehoshua ti fanno l’effetto della sabbia che rallenta l’ingranaggio. Per lui l’avvicinamento alla scrittura dev’essere posato. In certo senso solenne. Sulla lavorazione della lingua, gli piace sempre raccontare un aneddoto: «A Isaac Babel, l’autore ebreo-russo della geniale raccolta di racconti L’armata a cavallo, l’editore implorava di scrivere infine qualcosa di più lungo delle novelle. Un giorno lo scrittore gli si presenta barcollando sotto un’alta pila di fogli. L’editore esulta. Ma dal mucchio, Babel estre solo una pagina e gliela consegna: questo è il prodotto finito. Il resto sono prove».
Degli scrittori (ma anche editori) che non leggono perché sono troppo occupati dal lavoro dice sgranando gli occhi: «è un paradosso abominevole e sempre più diffuso». Anche da lettore, se c’è una cosa che lo offende è la sveltezza. La facilità con cui, magari sulla scia del noir, vengono raccontati i traumi: «Un omicidio, un suicidio, un divorzio, un tizio che scappa di casa o scompare…Fatti del genere li trovi sempre più spesso sbrigati in poche righe. Mentre nella realtà, anche se durano un attimo, sono stratificazioni complesse. E se capitano a te puoi impazzirci. Nei libri, gli shock dovrebbero toccarti come nella vita».
Nel suo pantheon privato, insieme a Faulkner, Kafka e Camus, mette pure il De Amicis di Cuore: non solo per motivo sentimentali (glielo leggevano da bambino), ma anche perché rimane convinto che il libro riuscito è quello che ti commuove: «Il massimo complimento che possano farmi è Signor Yehoshua, il suo romanzo mi ha fatto piangere». A lui capita di commuoversi scrivendo. O rileggendosi mentre lavora a un libro: «L’altro giorno correggevo quattro pagine del romanzo che sto preparando e mi sono venute giù le lacrime. Dall’emozione, ma pure dallo sfinimento: penso di non aver mai lavorato e osato tanto come in quelle quattro pagine». Proveremo a scoprire quali sono quando uscirà il libro. Da Einaudi nel 2011. E’ la storia, ambientata in Spagna, di un vecchio regista pedinato da ricordi e sensi di colpa.
Ma come commuovere senza blandire, senza rassicurare a buon mercato? «Per me la letteratura è un laboratorio di dilemmi morali. Non bisogna portare il lettore a conclusioni. Però da qualche parte bisogna portarlo. Lo scrittore è uno chauffeur. Di cui sai che, magari attraverso strade accidentate e paesaggi orrendi, ti sta conducendo verso una destinazione: cioè al cuore di una domanda ben posta». Dei personaggi dice: «Andrebbero rispettati come gli esseri umani. Mai ridotti a finzione. Nei miei libri non ce ne sono mai di radicalmente aberranti o incompatibili con me. Non c’è un solo personaggio che io non accetterei di far accomodare nel mio salotto, come lei in questo momento».
Per capire però come nelle intenzioni di Yehoshua non si insinui neppure un sospetto di buonismo, basta fare una cosa: leggere i suoi libri. Niente di meno consolatorio. A cominciare dal Signor Mani (del 1990): in cinque dialoghi sottoforma di monologo ( come se ascoltassimo qualcuno che parla al telefono) vengono ripercorsi «cinque incroci pericolosi e decisivi» della storia ebraica tra Otto e Novecento, «ma a ritroso, sulla falsariga dell’anamnesi psicanalitica» dice. Lo considera il suo romanzo più riuscito. È anche il più sfiancante. Quello che rischiato di stroncargli la carriera: «L’idea del libro mi venne una notte, lo avevo tutto in mente dall’inizio alla fine. Ho cominciato a scrivere. Avanzavo spedito. Poi, a metà, di colpo mi paralizzo. Vuoto. Come fosse saltata la luce. Non riuscivo a concludere una frase. Ero sbigottito. Non mi era mai successo prima. E non mi mai più accaduto in seguito. Ho mollato tutto, solo tempo dopo sono riuscito a riavviare il motore di quel romanzo».
L’idea del Signor Mani è del 1982, sulla spinta di due eventi traumatici: «La morte di mio padre e la guerra in Libano. Venni richiamato subito. In caserma arrivò un ufficiale. E ci spiegò tutto il piano come un compito facile facile: Ora noi andiamo lì, occupiamo Beirut, ci accordiamo con i cristiani e riportiamo l’ordine e la pace. Non potevo crederci. Invadere una capitale araba?! Come se domani, a Roma, le bussassero alla porta per dirle: Si prepari, Berlusconi ha deciso di riannettersi la Corsica. La realtà era impazzita. Di botto non capivo più niente, il mio Paese, la gente, la stampa…In quei casi che fai? Ho scritto un libro che è un arretramento a tappe nel passato. Perché nei momenti di delirio il presente non basta più: anche se frughi nelle pieghe non ci trovi più un solo elemento che ti aiuti a capire. Certe volte il presente è un vetro troppo affumicato per vederci attraverso, non trova?». Altrochè.

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